Venezia 81, Harvest: le crepe della modernità in un film ostico e indeciso

Venezia 81, Harvest: le crepe della modernità in un film ostico e indeciso

Venezia 81, Harvest: le crepe della modernità in un film ostico e indeciso Photo Credit: Ufficio Stampa Biennale Cinema


Alla Mostra del Cinema è arrivato in Concorso il nuovo film di Athina Rachel Tsangari, storica collaboratrice di Lanthimos

Ci sono quei film che si potrebbero definire benissimo “da festival” ossia che possiedono volutamente quell’estetica tipica che un film in concorso in una grande kermesse cinematografica deve avere. Formalismo estetico, lentezza della narrazione, presupposti ideologici esibiti senza mezze misure e un dramma forte che viene portato all’attenzione con simbolismi e metafore. Harvest, il film in concorso a Venezia 81, possiede tutti questi stereotipi. 


LA TRAMA IN BREVE

La pellicola segna il ritorno in cabina di regia di Athina Rachel Tsangari, storica collaboratrice del regista greco Yorgos Lanthimos. La trama del suo film si sviluppa nel corso di sette giorni allucinati, dove assistiamo alla scomparsa di un villaggio senza nome in un’epoca e un luogo indefiniti. In questa tragicomica interpretazione del genere western, Walter Thirsk, uomo di città datosi all’agricoltura, e l’impacciato proprietario Charles Kent, suo amico d’infanzia, stanno per affrontare un’invasione dal mondo esterno: il trauma della modernità.


FORMALISMO VUOTO E FINE A SE STESSO

Ripetitivo ma a tratti affascinante, il film richiede attenzione e pazienza allo spettatore, forse anche troppa. Si prende i suoi tempi (oltre che prendersi eccessivamente sul serio) e spesso rallenta il ritmo della storia e delle immagini solo per far riflettere su tematiche ormai reiterate allo sfinimento: la denuncia contro il sistema patriarcale oltre che la lotta tra tradizione e modernità. Ma se tutto questo nella prima parte funziona discretamente bene, man mano che il film prosegue nella sua durata, si incrina e perdendo mordente finisce per diventare quasi insostenibile. L’impianto visivo è ammaliante e talvolta regala anche attimi di sollievo al povero spettatore, sfinito da una narrazione inafferrabile e ostica. Ma nel complesso la pellicola è trincerata nel suo formalismo fine a se stesso. Una storia senza tempo, che vorrebbe nelle intenzioni parlare di quanto la modernità e l'innovazione senza scrupoli, possano far svanire l'identità di una società. Le tematiche potevano trovare una buona collocazione e magari essere portate all’attenzione nuovamente ma con colori e tinte diverse. Peccato che sul finale la morale di cui il film si fa carico finisca per essere troppo indecisa, quasi a non voler prendere veramente posizione, sfumando in un finale che più che essere aperto é semplicemente non riuscito.


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