The Brutalist, recensione del film che si prepara a fare incetta di nomination agli Oscar

The Brutalist, recensione del film che si prepara a fare incetta di nomination agli Oscar

The Brutalist, recensione del film che si prepara a fare incetta di nomination agli Oscar


La pellicola arriva sul grande schermo dopo aver vinto il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia

Una maratona di tre ore e mezza, estenuante ma anche esaltante. Il cinema che si erge in tutta la sua potenza, mostrando i muscoli e ribadendo ad alta voce tutta la sua forza. “The Brutalist”, il film diretto da Brady Corbet arriverà nelle sale italiane il prossimo 6 febbraio dopo aver vinto il leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola, che si è portata a casa anche tre Golden Globe qualche settimana fa (Miglior Film drammatico, Miglior Regia e Miglior attore protagonista) si prepara a fare incetta di nomination agli Oscar 2025. Un film ambizioso e dirompente che fa sentire lo spettatore piccolo come una formica.


THE BRUTALIST, LA TRAMA

Lo sguardo dietro alla macchina da presa è quello di Brady Corbet, giovane attore che da qualche anno prova a fare anche il regista e forse, dopo aver visto The Brutalist potrebbe seriamente pensare di farlo a tempo pieno. Il film racconta la storia dell’architetto ebreo László Tóth emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947.

Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita. Il suo talento di architetto e designer infatti viene notato dall'eccentrico miliardario Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), che è deciso a finanziare ambiziosi progetti architettonici nella Pennsylvania. Ma László oltre a dover far fronte ad una grande solitudine, ad una tossicodipendenza ereditata dalla guerra, deve combattere contro la perplessità di chi lo circonda verso le sue nuove idee, il razzismo e i traumi in lui lasciati dalla tragedia bellica.


THE BRUTALIST, PURO GODIMENTO CINEMATOGRAFICO

Dopo il folle architetto di Coppola e del suo snobattissimo “Megalopolis”, un’altro architetto fa il suo ingresso sul grande schermo.

Nell’opera Coppoliana c’era Adam Driver, qui invece c’è Adrien Brody, che interpreta un ruolo inventato ma che dialoga lucidamente con il contesto storico in cui si muove.

Era dal 2018 che si parlava di “The Brutalist”. Sembrava un’utopia, un progetto irrealizzabile che mai avrebbe visto la luce. Chiunque, leggendo di ritardi, modifiche e re-casting, non avrebbe scommesso un euro sul terzo lungometraggio di Brady Corbet. Per fortuna però la caparbietà e la determinazione del suo autore lo hanno portato a vincere la sua scommessa.

Solenne, monumentale ed imponente fin dal primo attimo. Un film sul cinema, che rispetta e osanna anche tutta quella liturgia tipica dello spettacolo cinematografico del passato. Una storia di riscatto e ambizione, con degli squarci drammatici e cupi che arrivano dritti al cuore e agli occhi dello spettatore.

Grande plauso alle scenografie e alla fotografia che avvolgono lo spettatore con grande calore, ma soprattutto alla musica che da una spinta fortissima al ritmo e alla struttura narrativa di alcuni passaggi chiave della narrazione.

Sembra quasi di intravedere un piccolo grande erede di quella estetica figlia del regista Paul Thomas Anderson, così ammaliante e curata.

Inutile nasconderlo. La durata si fa sentire, soprattutto nell’ultima parte dove una sforbiciata avrebbe sicuramente dato più respiro alla pellicola. Ma è come se Corbet avesse volutamente dilatato il tempo per poter godere di più della potenza delle immagini. Si perchè ci sono alcuni passaggi dove non si può fare a meno di provare puro godimento cinematografico.


“The Brutalist” è un’autentica lettera d’amore all’arte cinematografica e al grande schermo della sala, unico mezzo per poter vivere un’esperienza come quella messa in scena da Corbet. Un atto di resistenza alla fruizione liquida e microscopica dei supporti contemporanei, un regalo per gli spettatori che ancora vivono la sala come la mecca dell’audiovisivo.



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