Mostra del cinema di Venezia 2025. Il mago del Cremlino di Olivier Assayas. La recensione

Mostra del cinema di Venezia 2025. Il mago del Cremlino di Olivier Assayas. La recensione

Mostra del cinema di Venezia 2025. Il mago del Cremlino di Olivier Assayas. La recensione


31 agosto 2025, ore 18:15 , agg. alle 19:45

Il potere come spettacolo tra narrazione e manipolazione della realtà

Il mago del Cremlino, adattamento cinematografico del best seller di Giuliano da Empoli, si inserisce nel filone di film che esplorano i meccanismi del potere, ma lo fa con un’intelligenza e una sfumatura che ne fanno un’analisi affascinante e inquietante allo stesso tempo. Diretto da Olivier Assayas e con una sceneggiatura scritta in collaborazione con Emmanuel Carrère, il film arriva in concorso a Venezia 82, proponendo una riflessione lucida sulla Russia contemporanea attraverso gli occhi di un uomo, Vadim Baranov, che gioca un ruolo fondamentale nella creazione della figura politica di Vladimir Putin, interpretato da Jude Law.

IL MAGO DEL CREMLINO, LA TRAMA

Russia, primi anni Novanta. L’URSS è crollata. Nel caos di un Paese che cerca di ricostruirsi, Vadim Baranov, un giovane brillante, sta per trovare la propria strada. Prima artista d’avanguardia, poi produttore di reality show, diventa spin doctor di un ex agente del KGB in ascesa: Vladimir Putin. Immerso nel cuore del sistema, Baranov plasma la nuova Russia, confondendo i confini tra verità e menzogna, credenze e manipolazione. Ma c’è una figura che sfugge al suo controllo: Ksenia, donna libera e inafferrabile, che incarna la possibilità di fuga, lontano da questo gioco pericoloso. Quindici anni dopo, ritiratosi nel silenzio e avvolto nel mistero, Baranov accetta di parlare, rivelando i segreti occulti del regime che ha contribuito a costruire.

IL MAGO DEL CREMLINO, LA RECENSIONE

Il Mago del Cremlino non è un film su Vladimir Putin. È stato venduto così semplicemente per provare ad attirare su di sé maggiore attenzione. Piuttosto, si tratta di un’esplorazione profonda dei meccanismi sottili e pericolosi che oggi governano la politica internazionale, evidenziando come i potenti moderni, armati di tecniche di manipolazione e distorsione della realtà, siano in grado di esercitare un controllo sulle masse con una precisione quasi chirurgica. Ció che rende interessante il film non è solo la trama, ma come questa diventa un’analisi sociopolitica del momento.

Si attinge molto dalla realtà e dai suoi personaggi più controversi, come la figura di Ėduard Limonov, vera icona dell'opposizione russa, che appare come una sorta di spirito guida nel labirinto delle macchinazioni politiche. Ma la sceneggiatura mescola anche elementi di finzione per proporre una riflessione che non si limita a raccontare eventi, ma cerca di farli comprendere sotto una luce più ampia, da una prospettiva storica e culturale. Il discorso si fa metatestuale quando l’oggetto stesso della riflessione diventa il potere come macchina teatrale, come narrazione condivisa. Un esempio lampante di questa dimensione teatrale si trova nella scena in cui Putin scopre la scaletta della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Invernali del 2014 a Soči. Quella sequenza è il palcoscenico perfetto per questa manipolazione, dove ogni dettaglio è pensato per evocare un sentimento, un'idea, una narrazione che risponde a un doppio obiettivo: da una parte costruire un’immagine di grandezza nazionale, dall'altra distrarre e consolidare il consenso. L'esempio della presenza dei Daft Punk — un simbolo della cultura pop occidentale che incontra la tradizione russa — è emblematico: la fusione di elementi apparentemente opposti diventa il mezzo per rafforzare l’idea di un potere che sa come navigare tra i desideri del popolo e le esigenze di un'elite politica. E tutto ciò avviene sotto il segno di un kitsch consapevole, dove la bellezza e il significato si dissolvono nell’effetto visivo e emotivo. In questo spettacolo di potere, il confine tra la verità e la finzione è sempre più labile. Putin e i suoi consiglieri, tra cui Baranov, non si preoccupano di legittimare il loro dominio con azioni tangibili, ma piuttosto con simboli, narrazioni e immagini. Il potere diventa così un racconto che non deve necessariamente essere creduto, ma che deve essere vissuto come realtà — e se il pubblico lo accetta, allora diventa reale. Nel film, la potenza della costruzione narrativa è evidente anche nel modo in cui le figure storiche come Stalin vengono utilizzate, non come simboli di verità storica, ma come icone da manipolare e riscrivere per rispondere a una necessità politica. L’epica russa viene adattata, rivisitata, trasformata in una performance che non lascia spazio alla contraddizione, ma solo all’efficacia del messaggio. Tuttavia, nonostante la grande forza del messaggio e la potenza visiva dell’opera, Il Mago del Cremlino talvolta si perde in spiegazioni eccessivamente didascaliche, che appesantiscono il flusso narrativo. Ci sono momenti in cui il film sembra forzare l'interpretazione, come se temesse che lo spettatore non colga appieno la complessità dei temi trattati. Un peccato, perché questa necessità di esporre ogni dettaglio rischia di indebolire la forza evocativa del racconto, che avrebbe potuto essere ancor più affilato e incisivo, se le informazioni fossero state inserite in modo più sottile, magari in un discorso più organicamente legato alla trama.

In Il mago del Cremlino, il potere si rivela come un atto performativo, una rappresentazione che si adatta e si piega alle necessità del momento. In questo gioco, la verità non è un valore da preservare, ma una risorsa da manipolare per generare l'effetto voluto. In questo spettacolo, il pubblico non è solo spettatore, ma anche parte di un meccanismo che, accettando la finzione, contribuisce a renderla reale. E così, tra il trucco e l'inganno, tra la realtà e la sua narrazione, emerge una domanda inevitabile: fino a che punto la politica è davvero una questione di verità, e quanto invece sia solo un gioco di specchi, dove l'immagine, alla fine, è l'unica cosa che conta?


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