Morto il rapitore che ispirò la teoria della sindrome di Stoccolma. Gli ostaggi difesero Clark Olofsson durante una rapina

Morto il rapitore che ispirò la teoria della sindrome di Stoccolma. Gli ostaggi difesero Clark Olofsson durante una rapina Photo Credit: Fotogramma.it
28 giugno 2025, ore 08:00
L'espressione fu coniata all'indomani dell'assedio dal criminologo e psichiatra svedese Nils Bejerot per spiegare l'affetto apparentemente irrazionale che alcuni prigionieri provavano per i loro sequestratori
La 'Sindrome di Stoccolma': si fa un uso smodato di questa espressione, la si adatta a situazioni molteplici in cui si verifica una dipendenza affettiva nei confronti del proprio 'sequestratore'. La si usa comunemente e in senso astratto, eppure non compare in nessun manuale psichiatrico. Nasce, neanche a dirlo, in Svezia e l'espressione acquisisce forza nel corso di un processo a un ex ereditiera californiana.
PRIMO CASO IN SVEZIA
E' la forza di un fatto di cronaca e del suo impatto sull'immaginario collettivo, che in queste ore torna alla ribalta con la morte di uno dei protagonisti della vicenda criminale che portò a coniare questa espressione. E' lo svedese Clark Olofsson, scomparso all'età di 78 anni dopo una lunga malattia: considerato il primo vero gangster svedese, ha trascorso buona parte della sua vita in carcere in seguito a condanne per tentato omicidio, rapina e traffico di droga. Ma è noto soprattutto per essere stato uno dei due carismatici criminali coinvolti nel rapimento che ha dato al mondo proprio la 'Sindrome di Stoccolma'. Olofsson raggiunse la notorietà nel 1973 in seguito a una rapina in banca nella capitale svedese cui seguì una presa di ostaggi e una lunga e articolata trattativa con le forze dell'ordine. Il sequestro durò sei giorni, i quattro ostaggi - tre donne e un uomo - vissero la prigionia in un covo angusto, in uno spazio limitato, costretti a una vicinanza forzata. Una convivenza scandita dalla paura e dal terrore stemperati da piccoli atti di cura da parte dei loro carcerieri: bastò una giacca di lana offerta per attutire il freddo, una parola, forse un contatto fisico minimo come una carezza. Briciole, ma sufficienti per in quella circostanza estrema di privazione per sentire l'afflato di vita. Da qui la 'gratitudine' verso i rapitori, e l'empatia, al punto che quando gli ostaggi vennero liberati questi si preoccuparono dell'incolumità dei propri carcerieri. E prima di separarsi, li abbracciarono. Emozioni forti e contrastanti che furono al centro delle perizie psichiatriche usate per il processo, una delle prime volte che ciò accadeva. Così il criminologo e psichiatra svedese che se ne occupò, Nils Bejerot, per spiegare la reazione emotiva degli ostaggi verso i rapitori come una inconscia reazione al trauma, sintetizzò il fenomeno come la 'Sindrome di Stoccolma'.
SECONDO CASO, NEGLI USA
L'espressione entrò nel lessico comune però durante il clamoroso - e di altrettanto forte impatto sul pubblico - processo alla ereditiera californiana Patty Hearst: aveva 19 anni quando, nel febbraio del 1974, la discendente di una ricchissima famiglia americana fu rapita mentre si trovava nel suo appartamento di Berkeley da un commando del gruppo di guerriglia urbana Symbionese Liberation Army (Esercito di Liberazione Simbionese), una sorta di violenti Robin Hood che a suon di sequestri e rapine in banca si fregiavano di lottare (armati) per prendere ai ricchi e dare ai più poveri. Alla famiglia fu puntualmente chiesto un riscatto, che fu concesso dopo 10 giorni, ma la ragazza non fu restituita, fu invece recapitato un messaggio attribuito alla figlia Patty: "Mi è stata data la scelta di essere rilasciata in una zona sicura o di unirmi alle forze dell'Esercito di Liberazione Simbionese per la mia libertà e la libertà di tutti i popoli oppressi. Ho scelto di restare e di lottare". Si apprese successivamente che la ragazza, dopo essere stata tenuta bendata e chiusa in una piccola stanza, strinse amicizia con i suoi rapitori e aderì alle loro idee, iniziando con loro a rapinare banche. Fu arrestata nel settembre del 1975 e la tesi della Sindrome di Stoccolma venne utilizzata nel processo per dimostrare la sua innocenza, ma invano: fu condannata a sette anni di carcere.