“Mortacci Mia”, un viaggio dalle sfumature dantesche tra realtà e sogno tra i luoghi di Roma: ne parliamo con l’autore, Piero Salabè

“Mortacci Mia”, un viaggio dalle sfumature dantesche tra realtà e sogno tra i luoghi di Roma: ne parliamo con l’autore, Piero Salabè

“Mortacci Mia”, un viaggio dalle sfumature dantesche tra realtà e sogno tra i luoghi di Roma: ne parliamo con l’autore, Piero Salabè Photo Credit: "Mortacci mia" di Piero Salabè, La nave di Teseo


Un racconto che cattura l’attenzione del lettore, proiettandolo in un mondo in cui il confine tra ciò che è reale e gli elementi onirici si alternano senza soluzione di continuità

La storia dell’editoria è fatta di una moltitudine di pubblicazioni. Una vera e propria galassia sconfinata di libri e storie, che affondano le loro radici anche secoli addietro, e che ancora oggi vedono echi seguirne idealmente la scia tracciata.

Qualcosa che è avvenuto qualche settimana fa con Daniele Soffiati e il suo “Il giudice dei dannati”, un thriller che trae fortemente ispirazione dalla Divina Commedia del sommo Dante Alighieri.

E sicuramente il Padre della lingua italiana sarà stata una forte fonte di ispirazione anche per Piero Salabè, che con il suo “Mortacci mia”, edito da La nave di Teseo, accompagna i lettori in un vero e proprio viaggio di scoperta. Tra elementi fisici tangibili e momenti onirici, in un mix piacevolmente disorientante. Ne abbiamo parlato con l’autore, che ci ha raccontato tanti interessanti retroscena del libro.


MORTACCI MIA, LE STRADE DI ROMA DIVENTANO METAFORA DI VITA

Ciao Piero, ti cedo subito la parola per un'introduzione sul tuo romanzo. Di cosa parla "Mortacci Mia"?

“"Mortacci mia" tratta dell'impossibilità di scampare all'origine, che in questo romanzo è rappresentata dalla città di Roma, dalla propria famiglia, in particolare dal padre. Il narratore, che vive all'estero, vorrebbe liberarsi dalla nostalgia e dai legami che lo trattengono, ma, invece, continua a tornare, pur cosciente che il mondo dell'infanzia è perso, attratto da un magnetismo voluttuoso: "Mura mie adorate, polvere che mai più sarò". È una sorta di maledizione questa nostalgia, e in questo senso è da intendere l'imprecazione del titolo: "Mortacci mia", maledetto me che non riesco a vivere senza di voi, famiglia e città in cui sono nato. Famiglia che in larga misura è estinta, ma le persone morte sopravvivono nei ricordi, restano incantate nell'aria lasca della città eterna.

Roma, con la sua conturbante bellezza, è l "oscuro ombelico del mondo", un vortice che finisce per risucchiare chi ci vive e ci ha vissuto. Ma non è solo un libro su Roma, perché la città è una metafora del luogo in cui sono nati i primi amori da cui non ci si riesce a liberare. Credo che ognuno abbia conosciuto nella propria viva questo sentimento oscillante fra dolcezza e repulsione. È dunque un romanzo sull'"amore endogamico", l'amore che non esce da se stesso, asfissiante e inesorabile - ma è anche un romanzo di formazione, perché narra il tentativo di uscire, di trasformarsi, di diventare diversi, di staccarsi dal padre, dalla famiglia, dall'origine che tanto si amano.”


Ho notato, correggimi se sbaglio, che c'è tanta Divina Commedia nel tuo libro, dalle citazioni alla struttura della narrazione. Come mai questa scelta?

“La domanda mette l'asticella in un luogo inarrivabile. Non mi permetterei di paragonarmi al padre della nostra lingua e letteratura. Però è inevitabile che chi è italiano parli e pensi attraverso Dante, in modo simile a come la nostra lingua e il nostro immaginario sono impregnati dalla Bibbia. Il viaggio agli inferi di Dante, prima di lui l'avevano compiuto, fra gli alltri, Virgilio (o meglio, il suo Enea) e ancor prima Omero e l'autore del Gilgamesh, è un filo rosso che giunge fino ai nostri tempi più recenti, per esempio, con l'Antologia di Spoon River: è il viaggio di fondazione, direi, della nostra vita che sempre si staglia sull'orizzonte della morte e ci impone di riflettere sul suo senso. Nei circa quattromila anni di storia della civiltà non è cambiata una virgola rispetto alla caducità dell'uomo, malgrado Instagram e Elon Musk. Qualche decennio di longevità in più non hanno scalfito il mistero della nostra corta presenza sulla terra, sebbene "nel mezzo del cammin" oggi potrebbe essere non più, come fu per Dante verso i trent'anni, ma a un'età più avanzata. Io volevo scrivere un romanzo metafisico, in controtendenza al romanzo realistico in voga oggi, schiacciato sul presente: a me pare, che esista anche il tempo verticale, non solo quello orizzontale, e che negare questa dimensione metafisica, è una sorta di oltraggio alla realtà dell'esistenza umana.

Roma, con i suoi strati storici, si presta magnificamente a esemplificare la convivenza di vivi e morti. E d'altronde il titolo, "Mortacci mia", è un omaggio proprio ai morti che non muoiono, un impropèrio antichissimo, il "mia" di origine latina, che in italiano dovrebbe essere "miei". Roma, città almeno in questo saggia, non crede solo nel presente, ma in un tempo maggiore. In questo senso, i sotterranei di Roma sono i sotterranei di tutto il mondo. E nessuno come Dante ha saputo unire il mondo di sopra e il mondo di sotto, realtà orizzontale e verticale. La forza della "Divina Commedia" sta nelle infinite domande che formula rispetto alla vita dell'uomo, nonostante Dante, figlio del suo tempo, trovi risposte teologiche. "L'amore che move il sole e le altre stelle", il verso con cui si chiude il Paradiso, non ha perso nulla della sua misteriosità, sebbene letto oggi, nell'epoca della fisica quantistica e dei buchi neri, risulti più inquietante.”


Quanto tempo ti ha richiesto la costruzione dei diversi momenti della storia? Ci sono scelte stilistiche molto particolari che, immagino, abbiamo drenato parecchie energie creative...

“Molto tempo, anni, perché finché non avevo trovato il tono del romanzo, non volevo proseguire a scrivere: non mi interessava raccontare una storia più o meno realistica, io volevo "raccontare tutto allo stesso tempo", per dirla con Marguerite Duras. E per quello dovevo trovare un tono atemporale, qualcosa di sospeso, come quei dialoghetti fra fratello e la sorella, con cui iniziano i capitoli. Il romanzo doveva essere un crocevia di voci e tonalità, presenti e passate, supportate da una trama che prendesse la forma della ricerca.

Si tratta dell'antichissima forma letteraria della "quête", la struttura portante che va dall'epos di Gilgamesh agli odierni romanzi polizieschi, il "Pasticiaccio" di Gadda, per esempio, è una ricerca che va a vuoto, perché, modernamente, la verità è introvabile è uno "gnommero". Dunque il mio romanzo si organizza attorno alla ricerca di un padre, che incarna la ricerca del senso e della verità, ma poi la narrazione si dirama in molti ambienti differenti, descrivendo una certa Roma, il Quartiere Trieste l'Africano, nonché il labirintico e molto corrotto mondo dell'Università: qui, spesso, si sfocia nel grottesco e la commistione con la tonalità altrimenti poetico sublime rappresenta una caratteristica del romanzo. A cui si aggiunge l'aspetto onirico: il mondo surreale del Policlinico, osservato dai due protagonisti, il fratello e la sorella, come una realtà imperscrutabile, quasi fosse un sogno da cui ci si risveglia al mattino.

Volevo che la prospettiva dei protagonisti fosse regressiva, tornare bambini, osservare il mondo degli adulti senza comprenderlo, eppure cercare continuamente un senso nella figura del padre, che per i figli assurge a depositario del senso tout court. Gli incontri che avvengono nel Policlinico sono sempre, potenzialmente, immaginari, il fratello e la sorella vedono solo ombre attraverso i vetri opalini, sentono voci, che potrebbero essere frutto della loro fantasia. Eppure, in quel mondo, incontreranno personaggi che, ognuno, a modo suo, incarna una sua riflessione sulla vita, e compie una ricerca del senso.

Emerge qui l'aspetto del romanzo di formazione, la ricerca di uno sviluppo proprio che si dà attraverso il confronto con prospettive diverse, spesso opposte. Mi rendo conto della complessità di questa struttura: il continuo cambio di registro, dal grottesco al sublime, dall'onirico al filosofico all'elegiaco, risulta disorientante per molti lettori, direi la maggior parte. Ebbene, io non ho voluto fare compromessi, sono dell'opinione che il romanzo moderno permetta questa commistione, che, anzi, ne rappresenti una delle maggiori potenzialità, come le esplorò Roberto Bolaño nei "Detective selvaggi", un grande romanzo che narra, a modo molto suo, di nuovo la storia di una ricerca.”



UN ROMANZO, TANTI STILI NARRATIVI

Nel corso del racconto utilizzi tre tipi diversi di narrazione. Lo scambio di battute a inizio capitolo e poi un'alternanza di stili nel corso dei capitoli stessi. Come mai?

“Riguardo alle voci e ai livelli di narrazione, ho cercato una forma analoga alla "banda radio", la possibilità di ascoltare certe voci su differenti frequenze, di cui, per economia, se ne capta solo una per volta, ma basterebbe un minimo spostamento per sentirne altre, lontane, diverse. Qualcosa di simile a ciò che accade quando si passa da un canale radio all’altro. Sono voci che vengono dal passato e, talvolta, dal futuro, e risuonano nella mente del narratore. Nello specifico: con lo scambio di battute all'inizio del capitolo – una trovata esclusivamente farina del mio sacco – intendevo dare un tono atemporale al romanzo, sin dal primo dialogo che ha luogo quando la storia è già finita. Segnalare, insomma, al lettore che sta leggendo una storia senza cronologia univoca, sebbene poi quella che si racconta pare averne una: la ricerca di un padre scomparso.

Eppure, anche questa narrazione, e con ciò arriviamo al terzo livello, è continuamente inframezzata da ricordi, sogni, voci di altri personaggi della famiglia e della città: il romanzo diviene così una cassa di risonanza della memoria personale, la quale è mobile, un magma che muta in ogni istante: non esiste un ricordo, ma solo il mutevole ricordare nel nostro flusso di coscienza dove non cessano di giungerci voci e visioni di persone che hanno formato la nostra vita. Questo crocevia di voci complica naturalmente la lettura, a me, tuttavia, sembrava l’unico modo di rendere giustizia alla realtà vissuta e sentita dal narratore. La sfida stava nella composizione di questo disordine psichico, utilizzando vari livelli di narrazione, per sviluppare i temi centrali – dal rapporto conflittuale con l’origine all’amore endogamico – mantenendo il filo rosso della memoria come costruzione etica e, allo stesso tempo, sentimentale.”


Se questo libro fosse una canzone, quale sarebbe?

“Bella, ma difficile domanda, perché il romanzo vive di continui cambi di registri e tonalità. Sarebbe più facile indicare una sinfonia con diversi movimenti, adagi intermezzati di allegri, motivi che ritornano. Essendo, tuttavia, la nota dominante la nostalgia, “il dolore del ritorno”, che è anche il dolore della coscienza della perdita, scelgo “By this river” di Brian Eno. È una canzone d’amore, due persone sedute accanto osservano il corso di un fiume, la loro vicinanza è marcata da una distanza straziante: “Tu mi parli /come se fossi lontano / E io ti rispondo / con impressioni prese da un altro tempo, tempo, tempo”. C’è l’idea qui, dell’amore come sfasamento, una forma dell’assenza e del distanziamento, che è centrale nel romanzo, determinata dalla paura della vicinanza, il terrore di riconoscersi nell’altro, vissuto, uno accanto all’altro, sotto “un cielo che continua a cadere”.

Brian Eno tratta di due amanti, il mio libro, invece, parla dell’amore famigliare, quello di un figlio per il padre, di un fratello per una sorella: anche in quello esiste, a mio avviso, il germe dell’eros, una fusione indicibile, come si dice a un certo punto nel romanzo: “Sarà inutile volere declinare, dare un genere, un’età, un limite a quell’amore, perché non ne ha, e ci lascia muti quando lo smentiamo, mescolandolo in modo irriconoscibile in quelli che chiameremo i nostri amori.” Nella canzone di Brian Eno la sconfinata lontananza – l’essersi persi, distanti, irrecuperabili – diviene nello spazio dell’anima singolare vicinanza, presenza a posteriori, possesso solo spirituale.”


Quanto hanno influito i tuoi lavori precedenti su questo libro? E quanto senti che influirà questo sui tuoi lavori futuri?

“Io sono un poeta che non si vuole limitare al genere della poesia e che non la considera neppure un genere, ma la sostanza stessa di ogni arte. Così, dopo avere scritto il libro di versi “Il bel niente” nel 2019, ho esteso il principio poetico a una narrazione più complessa: se è vero che la poesia, più del romanzo, vive del momento, “l’attimo eterno”, e meno di uno sviluppo drammatico, la sfida è stata raccontare delle figure, delle situazioni, l’amore verso l’origine senza tradire il mandato della poesia, senza raccontare semplici episodi, lasciando che fosse il romanzo, con la sua lingua e musicalità, a “scrivermi”. Perché la poesia mi conosce meglio di quanto io possa conoscere me stesso. Ci sono tantissime scritture di prosa poetica a fare da modello, grandi autrici come Marguerite Duras o Clarice Lispector. Ho scoperto, scrivendo “Mortacci mia”, un modo proprio di unire prosa e poesia che corrisponde al mio modo di vedere il mondo: poesia, scrittura come forme di assenza, di ricostruzione della vita a posteriori. Una vitalità peculiare nata dalla malinconia, dall’incapacità di vivere nel presente.”

 

Hai già qualcosa che bolle in pentola di cui possiamo parlare?

“Se “Mortacci mia” è il romanzo sull’amore endogamico, quello che non esce da se stesso, adesso ce ne vuole uno sull’amore esogamico. Che orrenda parola per dire dell’amore che conduce fuori da se stessi, che implica apertura, commistione, perdita completa di sé. Sarà un romanzo che parte da Roma, ma conduce in oriente. Un oriente immaginario, minaccioso, in cui narratore di “Mortacci mia” cerca di liberarsi della sua scorza borghese. Un libro costituito da infiniti incontri e storie, come le Mille e una notte. Un’anticipazione si trova nel racconto “Per le stesse strade girerai”, leggibile nel link che si trova nella mia biografia su Instagram. Confesso che mi fa molta paura questo progetto e chiedo ausilio alle muse per questa avventura nel campo senza limiti dell’eros.”


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